Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

martedì 17 settembre 2013

Da "Gli anni veloci", di Carmine Abate (Mondadori, 2011)




Che la vita è comunque bella: ecco cosa non devi mai scordare.

Erano sempre giornate di sole. "Ti raccomando..." diceva la madre sulla soglia di casa. Il ragazzino corrugava la fronte pensieroso, come se quella parola sospesa nascondesse apprensioni o pericoli che gli sfuggivano. Poi però non perdeva altro tempo: montava in bici per primo e con uno scatto a testa bassa raggiungeva il lungomare. Solo allora, senza mai rallentare la corsa, liberava il grido di felicità che tratteneva in gola dal mattino.
All'improvviso sentiva alle spalle la voce del padre: "Dài, Nicola, più svelto, più svelto!". Lui stringeva i denti e pedalava a tutta forza, non voleva arrivare ultimo al traguardo, ma le bici di Mario e del padre lo superavano veloci.
Attraversavano la zona del porto e il viale alberato sotto il Castello di Carlo V, poi costeggiavano la strada sterrata verso l'uscita della città.

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Lei desiderava una femminuccia, naturalmente, avrebbe avuto un'accucchjàta perfetta, diceva sincera, ma era contenta lo stesso, perché quel figlio era sgusciato fuori di domenica e avvolto nella camicia della fortuna, con i capelli folti che asciugandosi al caldo dei seni ricchi di latte si erano subito arricciolati.

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In città lo chiamavano Capocolò, perché andava a pesca sempre a Capo Colonna, proprio nel tratto di mare di fronte all'unica Colonna superstite tra le quarantotto dell'antico tempio di Hera Lacinia.
In estate si portava anche Nicola e Mario. Uscivano prima dell'alba con la sua Rosa del Mare, una barca munita di un vecchio motore a nafta che friniva come un coro di cicale stanche. Di solito tornavano con una cassetta di pesce misto, dopo aver goduto i luccichii rossastri sul mare e la Colonna solitaria baciata dai primi raggi del sole come una dea.

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A fine estate Nicola s'immalinconiva come se andasse incontro alla morte e non alla brutta stagione, che prima o poi sarebbe passata. Per lui l'estate era, ed è, la vita. La vita vera, cioè, libera e calda.

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"Fraticè, ti ho portato un po' di musica decente, così la smetti di ascoltare canzoni sguaiate di altri tempi e ti fai una cultura musicale moderna".
Ogni volta gli regalava dischi che erano delle primizie, l'ultimo LP dei Rolling Stones o di Bob Dylan o dei Pink Floyd. Tra gli italiani, a furia di regali e discussioni, gli aveva inculcato l'amore per Guccini, I Nomadi, De Andrè, e gli parlava spesso di Rino Gaetano, un giovane cantautore di origine crotonese che viveva a Roma e di cui Mario si vantava di essere amico fin dall'infanzia e di conoscere molte canzoni ancora inedite: "Io vi farei studiare i testi di Rino a scuola" aggiungeva, "sono una bomba satirica e allegra, fanno bene all'anima e all'intelligenza, altro che il pessimismo del passero solitario che cantando va finché non more il giorno o il passerotto che è volato via, senza i tuoi capricci che farei... ma insomma: aprite gli occhi, le orecchie e soprattutto la bocca, se occorre. Voi ragazzi di oggi mi sembrate dei Fantozzi con la lingua di fuori e il cuore moscio e piagnucoloso. Ma le palle ce le avete?".

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Tu se vuoi riuscire nella vita devi mettercela tutta, non basta il talento, conta soprattutto la volontà, non devi mai mollare, altrimenti la vita con le sue ferite e i suoi scazzeggi ti seppellisce vivo, ti affuca nella tua stessa pigrizia. (...) mi sa che la fortuna la devi corteggiare come una bella fimmina. Se tu le giri le spalle perché pensi ai cacchi tuoi, quella se ne va con uno più tosto di te, più sgherroso.

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A piedi raggiunsero il cuore del sito archeologico e si fermarono in una piazzola che pareva una terrazza sul mare, circondata da spighe di orzo selvatico, macchie di rosolacci, cardi marini, margherite gialle, cespuglietti fioriti di cisto e di ginestre. Avevano portato due cassette di pesce misto per la zuppa marinara detta "u quadaru", dal nome dialettale del pentolone in cui si preparava. Capocolò era uno specialista in falò e nel rito antico del quadaru. Veniva invitato spesso da Mario per le scampagnate. Anche quella sera era l'unico anziano tra i giovani. Che arrivavano uno dopo l'altro e gli consegnavano una provola o un vasetto di sardella o due soppressate o una mezza treccia di salsiccia o un pane di paese o un barattolo di olive o un bottiglione di vino o birra in lattina. Intanto, tra le pietre antiche e gli alberi al di là della strada, Nicola e Mario raccoglievano sterpi, radici e rami secchi per Capocolò, che li accatastava con perizia.
Il fuoco divampò superbo proprio quando il buio aveva avvolto ogni cosa e sul mare oltre la Colonna cominciava a spandersi una flebile scia di luna.

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Di cosa parlate, eh, cosa avete di così importante da dirvi se nemmeno vi conoscete? Nicola era arrabbiato con Anna, che si era attaccata a Rino come un'ombra e non le interessava nessun altro, quella sera. Per fortuna Manuela lo aveva accolto tra i suoi grandi seni. Era accalorata, il vino, il fuoco, il corpo caldo e muscoloso di Nicola. Tu fa' pure la smorfiosa con Rino, pensava Nicola che si sentiva tradito e beveva birra, la testa gli girava ma continuava a bere e a stringere Manuela, le aveva infilato la mano sotto la maglietta e le accarezzava la schiena e più giù, la carne morbida, e davanti, la pancia grassoccia e sudata, e in su, i seni gonfi, i capezzoli duri.
Manuela aveva chiuso gli occhi e, siccome Nicola si limitava ad ascoltare la musica e a muovere la sua mano serpente, lei gli aveva tolto il respiro tappandogli la bocca con le labbra umide di vino. La sua lingua sapeva di prezzemolo e di limone. Era una lingua aspra, lenta, assetata. E tu, Anna, continui ad ammirare Rino, parli solo con lui, di me non te ne importa niente e nemmeno delle tue amiche e nemmeno del mare nero mare nero mare ne... e del cielo traboccante di stelle e nemmeno della Colonna che ci osserva misteriosa e forse ride di noi, e di Capocolò che guarda lontano, verso il punto in cui getterà le reti. Cosa cerca nel buio? Cosa cerchi, Anna, negli occhi di Rino? Lascialo cantare, "Tu, forse non essenzialmente tu, hai scavato dentro me...", canta così bene, "io che ho bisogno di raccontare io, la necessità di vivere...", meglio di tutti noi messi insieme, "e bevo birra chiara in lattina, me ne frego e non penso a te".

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A fine maggio fu organizzata la cerimonia di premiazione degli atleti che si erano distinti ai Giochi della Gioventù provinciali. Il Cinema Teatro Apollo era stracolmo di ragazzi in rappresentanza di tutte le superiori della città. Gli atleti salivano sul palco, venivano presentati dai rispettivi allenatori, premiati dai presidi e applauditi.
"Ed ecco a voi Nicola Manfredi, della terza H della nostra scuola" annunciò con orgoglio il professor Greco. "Medaglia d'oro nei cento metri e idem nella staffetta 4x100. Ha battuto tutti i record regionali, è ormai più che una promessa: è un campione, il nostro fiore all'occhiello."
"Inoltre ho saputo che va benissimo pure a scuola" lo interruppe il preside Regalino. "Io lo dico sempre: mens sana in corpore sano."

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La casa era vuota e silenziosa. Da quando non doveva cucinare per le studentesse, la madre di Nicola indugiava fino a tarda mattinata nei suoi giri al mercato o all'Upim sotto i portici o andava alla Cattedrale per pregare la Madonna di Capo Colonna. Con il marito, soprattutto nelle sere d'estate, frequentava il Circolo ricreativo aziendale lavoratori della Montecatini, il Cral. Era l'unico svago per entrambi, in una vita di lavoro. Partecipavano alle feste, alle gite, ai tornei, agli spettacoli. Grazie al Cral erano stati in gita a Londra e a Parigi, avevano sentito cantare dal vivo Domenico Modugno, Claudio Villa e Mino Reitano al Teatro Apollo, e ogni volta vincevano la gara di ballo liscio.

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Ci fu un momento sospeso tra l'ultimo chiarore della sera e il primo buio. Se ne accorsero entrambi e provarono una felicità subdola, di quella che t'illumina d'immenso per un attimo e sparisce nel caos delle emozioni senza nome. Poi anche i residui di luce riflessa sul mare vennero risucchiati dal cielo scuro. E fu buio totale.

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Attorno a sé vede solo mare increspato di piccole onde piene di luce, innocue e leggere; con quel sole a picco sulla testa l'orizzonte si perde nell'azzurro brillante del cielo e il mare non ha confini, se non la linea frastagliata della costa. A correrle a fianco, sopra la scogliera, la Colonna superstite del tempio di Hera Lacinia pare inseguirli.

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Sì, aveva ragione Rino sulle spine dei cardi. La bellezza e i dolori. Questa terra è spinosa come un cardo dal fiore sgargiante. Ti può pungere a sangue ma ha un sapore unico, nelle venature più profonde.

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La verità è che decifriamo i segnali misteriosi della vita come meglio ci aggrada, come ci conviene.

(...)

Il posto in cui sei nato ti resta dentro finché campi, anche se ci vivi lontano da una vita.

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