Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 21 aprile 2013

Da "Pappagalli verdi", di Gino Strada (Feltrinelli, 2008)




Non mi illudo certo di avere partorito un libro di valore.
Spero solo che si rafforzi la convinzione, in coloro che decideranno di leggere queste pagine, che le guerre, tutte le guerre sono un orrore. E che non ci si può voltare dall'altra parte, per non vedere le facce di quanti soffrono in silenzio.

G.S.

(...)

Non sta negli atlanti di geografia, il Kurdistan, e occupa poche righe nei libri di storia. Nessun curdo siede nel grande palazzo dell'Onu, e nessuno parla a nome loro. Come se non ci fossero, rimossi dalla cronaca e dalla politica.
Ma loro esistono, sono qui. Hanno da sempre abitato queste montagne, dall'una e dall'altra parte del confine si parla la loro lingua, si indossano i loro costumi colorati, si danzano le loro musiche, tenendosi per mano e girando in cerchio, con il primo della fila che sventola e fa ruotare un fazzoletto bianco.
Dovevano essere "spettatori" di quel dramma. Invece sono stati sballottati qua e là dai vincitori di turno, hanno dovuto scappare più volte come selvaggina braccata, per sfuggire alle bombe e alle armi chimiche.
Non tutti ce l'hanno fatta. Non ce l'hanno fatta molti degli abitanti dei quattromila villaggi curdi distrutti dall'artiglieria e dall'aviazione. Non ce l'hanno fatta gli ottomila uomini rastrellati nei villaggi delle valli qui intorno, e massacrati chissà dove, le cui donne velate di nero ancora aspettano un ritorno impossibile, vedove senza diritti che da anni si consumano nell'attesa.
Deportati o costretti a scappare, ogni volta, a rifugiarsi tra le montagne.
Ogni volta che hanno potuto impugnare i fucili per difendere le proprie case, lo hanno fatto. Come nel 1991, quando le truppe di Saddam cercarono la soluzione finale del "problema curdo" e si trovarono di fronte a una fiera resistenza armata.
Gli iracheni furono costretti ad andarsene. E Saddam ebbe a dire: "Ci siamo spostati, ma il nostro esercito è ancora lì".
Alludeva ai milioni di mine antiuomo seminate nella regione, sulle colline e nei campi, vicino alle sorgenti d'acqua e ai cimiteri, nelle case ridotte a macerie. Perché la vita non potesse riprendere.

(...)

La Pink Ward è un grande stanzone, la più grande corsia dell'ospedale di Quetta, in Pakistan, quaranta letti sempre occupati e la porta come quella dei saloon, dipinta di un rosa disgustoso.
Quella sera di dicembre, usciamo dalla sala operatoria poco prima delle dieci. Come me c'è Peter, bravo anestesista di Copenhagen, alto e allampanato. Aveva accettato volentieri, come sempre, la proposta di un piatto di pasta da me. La  pasta è per noi, italiani girovaghi, un'arma preziosa, un mezzo sicuro per socializzare e iniziare a capirsi con gente di altre culture e tradizioni.
Non siamo di guardia, questa notte.
Decidiamo di passare per la Pink Ward, prima di andarcene, per vedere un malato operato al mattino: meglio chiedere all'infermiera di turno se ci sono problemi.
La strada per l'ospedale è la stessa che porta al confine con l'Afghanistan, un centinaio di chilometri più a est. Da lì arrivano i feriti. C'è traffico la sera, su quella strada buia, e si rischia spesso di trovarsi in faccia a un camion che corre veloce a luci spente. Meglio evitare di dover tornare in ospedale mezz'ora dopo.
Anche in corsia le luci sono spente, come sempre. Ma nella Pink Ward c'è qualcosa che attira la nostra attenzione.
Ci avviciniamo.
Il sacchetto di plastica trasparente che avvolge la testa è gonfio d'aria e legato al collo con un tubo da fleboclisi. Peter reagisce subito, strappa il sacchetto, scioglie il nodo, chiama aiuto.
Finalmente una torcia. 
È un ragazzino, ha testa e occhi bendati, è cianotico in volto, incosciente, non respira. Arriva una bombola di ossigeno, Peter lo rianima veloce, io sono confuso.
Ricomincia a respirare, Mohammed Abdullah, qualche minuto e riprende conoscenza.
Scorro la sua cartella clinica: era stato operato da noi, tre giorni prima. Shelling injury, tante schegge metalliche, alla testa, al torace e al volto, ferito durante un bombardamento nel suo villaggio in Afghanistan.
Un occhio completamente distrutto, l'altro ci era parso forse recuperabile. "Chiamare l'oculista", c'è scritto in cartella. Ce ne è uno disponibile in zona, passa da Quetta ogni cinque o sei giorni. Poi Qualche prescrizione, antibiotici, antidolorifici quando necessari, tutto qui.
Che imbecilli siamo stati!
Abbiamo un ragazzino con gli occhi bendati da tre giorni, e nessuno di noi ha pensato di parlargli, di spiegargli che si riprenderà, che potrà vedere ancora... Magari una mezza bugia lo avrebbe aiutato in quei momenti, magari avrebbe evitato quel gesto folle.
D'accordo, c'è tanto da fare, più di venti feriti arrivano in ospedale ogni giorno, ma non ci sono scuse, è in gran parte colpa nostra, o mia, per essere più precisi.
Non abbiamo più voglia di cenare. Vado a letto presto ma fatico ad addormentarmi, penso a Mohammed.

(...)

All'uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall'esplosione.
"Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l'hanno raccolto sul luogo dell'esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi..." e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l'estremità dell'ala. "... Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah, l'autista dell'ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l'anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco."
Mine giocattolo, studiate per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire...


(...)

Ho visto troppo spesso bambini che si risvegliano dall'intervento chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza un braccio. Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono. Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio.

(...)

Questo mestiere mi piace, anzi non riesco a immaginarne un altro che possa piacermi di più. Potrei perfino dire che mi diverte, se non rischiasse di suonare offensivo per tutti quegli sfortunati cui tocca di avere a che fare con il mio lavoro. Mi piace trovarmi spesso di fronte a nuove difficoltà, a problemi inaspettati, mi piace lavorare in condizioni e situazioni così diverse, spesso complesse e anche rischiose, ma sempre stimolanti.
In fondo, ma non vorrei essere frainteso o accusato di snobismo, è un gioco. Nel senso più vero. Come gli scacchi o il bridge. Attività libere, non condizionate, senza secondi fini, che si praticano solo perché piacciono. E perché piace vincere, come mi piace vincere nel mio lavoro. Dimostrare che si può fare, che si può riuscire in qualcosa di utile anche quando sembra impossibile, quando le porte sembrano tutte chiuse.
Accettare la sfida, misurarsi con le difficoltà.
Ma è una sfida particolare, in qualche modo diversa dal raggiungere in bicicletta il Polo Nord. Perché riguarda molti, perché sono in tanti a vincere, quando si vince, e perché è importante che questo gioco continui, che dopo una gara ne cominci un'altra.
Serve che ci sia, questa sfida. Perché nei luoghi di guerra dove andiamo a lavorare non ci sono alternative.
Si parla tanto di "diritti umani". E quel diritto elementare di essere curati quando si è feriti o malati, che viene calpestato con regolarità impressionante?
Può capitare anche nell'evoluta Europa, beninteso, e capita. Ma nei teatri di guerra del mondo è una regola costante. Non ci sono medici né medicine, e il poco disponibile è riservato in modo esclusivo a militari e combattenti.
Per centinaia di migliaia di donne e bambini non resta nulla, con buona pace delle tante agenzie "umanitarie" dell'Onu che foraggiano i governi responsabili di quelle politiche.
Quel che facciamo, noi e tanti altri, quel che possiamo fare con le nostre forze e risorse limitate, è forse meno di una gocciolina nell'oceano, come si usa dire.
Lo sappiamo bene, ci è davanti agli occhi ogni giorno l'inadeguatezza delle nostre azioni, l'enorme sproporzione rispetto ai bisogni.
Spesso ci sentiamo depressi e frustrati, qualche volta abbiamo voglia di piantare tutto. Ma poi basta poco per riprendere, una stretta di mano, una madre che ritrova il sorriso, un bambino che riprende a giocare, o più semplicemente perché ci sentiamo stanchi la sera ma convinti che il giorno non sia passato inutilmente.
Sentirsi in pace? Forse.
Ma ne ho sentiti tanti, troppe volte, di censori che puntano il dito contro chi fa qualcosa "solo per lavarsi la coscienza", del tutto indifferenti al fatto che la loro, di coscienza, continua a puzzare lontano un miglio e non viene lavata da lustri.
Resto dell'idea che è meglio che ci sia, quella gocciolina, che se non ci fosse sarebbe peggio, non solo per me.
Tutto qui.
Nessuna liturgia né retorica, niente significati trascendenti e universali. Non servono, non c'entrano, possono perfino essere dannosi. Questo deve restare un mestiere, anzi deve cominciare, finalmente, a diventare un mestiere, una professione. Il chirurgo di guerra come il pompiere, il vigile, il fornaio.
Perché solo se diventa mestiere, lavoro, occupazione permanente, può acquistare dignità, guadagnare in competenza, diventare intervento di qualità, essere professionale.
La chirurgia di guerra non è terreno di avventura o improvvisazione. Qui non basta la voglia, splendida e generosa, di essere utili, per essere utili davvero.
È un lavoro faticoso, quello del chirurgo di guerra, da imparare sul campo giorno per giorno, esercitando l'umiltà di ascoltare e la disponibilità a non avere certezze.
Ma è anche, per me, un grande privilegio. Ricevo uno stipendio per fare il lavoro più bello, quello che ho sempre sognato di poter fare, anche gratis.

(...)

Passerà alla storia come il Bloosy Friday, il venerdì di sangue. Ma non ci sarà sangue, per le strade di Halabja. Niente corpi mitragliati sulle bancarelle che vendono arance, nei piccoli negozi della strada principale dove stanno appese centinaia di sandali di plastica e i larghi chador neri che vestono le donne.
Niente fragore di bombe, nessuna casa squarciata. Neanche a Khormal, né a Dojaileh, vicini villaggi di pastori e contadini.
Solo il ronzio degli aerei. Aerei, nuvole, aria, aria...
L'Iraq è tra i paesi che hanno firmato la gran parte delle convenzioni e dei protocolli internazionali sul divieto dell'uso di armi chimiche e batteriologiche.
Non è possibile, non è possibile...
C'è una scuola ad Halabja, si chiama "Marzabotto". È nata per iniziativa del comune italiano e delle organizzazioni sindacali dell'Emilia-Romagna.
"Perché Marzabotto e Halabja hanno qualcosa in comune - mi spiega il preside della scuola curda - hanno sofferto dei massacri, sono testimoni degli orrori di questo secolo."
Orrore. Bocche che si aprono, occhi che si fanno grandi, impietriti, mani intorno alla gola, a stringerla per non respirare, a impedirle di gonfiarsi ancora di più, la lingua che esce a cercare aria, come succede ai cani dopo la corsa, la pelle che perde colore, l'aria che non c'è più, il vuoto, dove gli esseri umani non possono più vivere, l'orrore nello sguardo, le sclere bianche dove si riflette il volo di quegli uccelli di morte.
(...) Chiamano Halabja l'Auschwitz dei curdi.

(...)

Ho passato con Cecilia secoli di felicità, e a chi recitava la litania "goditela adesso, perché quando crescerà cominceranno i problemi" ho sempre risposto: "stronzate, Cecilia è Cecilia".
Ma forse ho esagerato, nella mia presuntuosa convinzione che il gioco fosse fatto, forse ho creduto che quegli anni spesi insieme potessero essere un investimento per la vita, forse ho preteso che una bambina di nove anni capisse un padre che sta via mesi e torna solo per cambiare le valigie.
E mi ha preso l'angoscia, che è molto peggio della paura che a volte mi capita di provare in situazioni di guerra. L'angoscia di averla persa, di averla ferita, di aver rotto quel rapporto che era la cosa più bella che avessi costruito in quarant'anni.

(...)

In guerra si uccide, perché la guerra la si fa contro qualcuno. Contro il nemico, per quel che rappresenta o per quel che possiede, si usano i cannoni e si bombarda.
Ma quella del cecchino è una guerra strana. Il suo lavoro non produce centinaia di vittime, la sua arma è semplice, un fucile di precisione: un colpo, un morto.
C'è qualcosa, nella guerra del cecchino, che fa più orrore delle bombe.
Attraverso il binocolo del fucile, il bambino biondo lo si può vedere grande grande, come se fosse lì accanto. Lo si può veder giocare, fare smorfie nel rotolarsi sulla neve fresca.
È lui il nemico, anche se la sua sola arma è quel pezzo di legno che usa come slitta. Il binocolo non inquadra eserciti minacciosi che avanzano, solo la faccia di un bambino come fosse in fototessera. Non lo sa, il nemico, di essere osservato, non sa che la sua fronte lentamente si muove fino a occupare il centro della croce del binocolo del cecchino.
E forse sorride, mentre viene premuto il grilletto.
In inglese, the snipe è la beccaccia. E il verbo to snipe significa "sparare da una posizione nascosta", proprio come si fa con le beccacce. Ma come si fa ad uccidere, se la beccaccia ti sta sorridendo?

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