Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 10 marzo 2013

Da "Venuto al mondo", di Margaret Mazzantini (Mondadori, 2008, ebook)




Esco sul terrazzo, guardo il solito. Il palazzo dirimpetto al nostro, le persiane accostate. Il bar con l'insegna spenta. C'è il silenzio della città, polvere di rumori lontani. Roma dorme. Dorme la sua festa, il suo pantano. Dormono le periferie. Dorme il papa, le sue scarpe rosse sono vuote.

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"Ci penso, sì..."
"Non devi pensarci, devi venire."
"Perché?"
"Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?"
Certo che mi ricordo...
"E ride di noi, come una vecchia puttana sdentata che aspetta l'ultimo cliente..."

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Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?
"D'accordo, vengo."
Il fango fermo della vita è ora polvere che vola verso di me.

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Mangiammo ćevapčići il giorno che ci conoscemmo. Li comprammo in un chiosco e li mangiammo in piedi, in un freddo siderale. La donna che li arrostiva aveva una giacca di lana a trecce e una scuffia da cuoca. Assisteva alla nostra fame, spiando ogni morso, felice che apprezzassimo i suoi ćevapčići. Erano un vanto. Il vanto della sua piccola vita di cuoca di strada. La vedo come fosse adesso... un volto proletario, sofferto, eppure infinitamente dolce. Una di quelle persone benefiche che incontri per caso e ti viene voglia di abbracciare, perché ti sorridono dal fondo della loro esperienza umana e di colpo ti risarciscono dell'altra metà del mondo, quella accasciante delle persone rinserrate nella loro pozza di buio.

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Adesso è qui, in questa sera tiepida... gomiti su una tovaglia di plastica, in questa città compromessa dal dolore che ora tace, cartacce per terra, cicche, passi di gente che torna a casa. Una bottiglia di vino finita, goduta, una benefica normalità.
E questa normalità è il miracolo, questa baklava che ci stiamo dividendo, un impasto dolce, flessuoso di noci e pasta sfoglia. I cucchiaini s'incontrano sul piatto.

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"Essere bosniaci era un vantaggio, avevano tutti molta pena di noi all'inizio..." sorride, ordina due bicchierini di rakija.
"L'ospitalità è durata poco, l'Europa ha smesso presto di sentirsi in debito. Non abbiamo una buona fama, perdiamo tempo, siamo troppo contemplativi."

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Non si può mai dire cosa... cosa sia esattamente. È una membrana, forse una prigione fin dall'inizio. Una vita ha viaggiato lontano da noi incontro alla nostra, ne abbiamo sentito il vento, l'odore di una sosta. Il suo sudore, la sua fatica erano dentro di noi. Era per noi lo sforzo.

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Da questa collina gli sniper sparavano, giocavano con le loro vittime, colpivano una mano, un piede... Alcuni miravano ai testicoli, a una tetta, avevano tutto il tempo di uccidere, così prima si divertivano un po'.
Per me era come sparare sui conigli, disse uno di loro in un'intervista. Non si sentiva colpevole, non capiva nemmeno perché ci fosse tutto quell'interesse intorno a lui, non era pazzo o sadico o altro. Aveva semplicemente perso il senso della vita.
La pietà muore insieme al primo che uccidi.
Era morto anche lui, per questo sorrideva.

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La tedesca è una buona madre. Ora canta una ninna nanna. È una donna poco attraente, giovane ma sfatta come una donna di mezza età. Non c'è niente di bello in lei ma suo figlio la ama, come uno scudo di carne, una torre di amore. Suo figlio la crede bellissima, affonda il naso in quel profumo greve di capelli, di cute che ha sudato e riconosce l'odore del ventre, del fango avorio della nascita.

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"Hai fatto delle belle fotografie?"
"Non lo so."
Non sa mai se le sue fotografie saranno buone, se ci sarà qualcosa da salvare. Un'immagine, una sola che vale caterve di rullini buttati. Lui, mentre fotografa, vede cose sbagliate, capolavori che invece saranno cagate. L'immagine di rivela tra gli errori. Bellezza che spunta a casaccio, come sempre nel mondo.

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La vediamo in televisione ogni sera, la guerra, questa è la vera novità. È vicina perché è a poche miglia di mare, è lontana perché ronza nello schermo tv.

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Sono brava nel mio lavoro, sono svelta. Perché non ho alcun interesse per quello che faccio. Va bene così. La passione mi taglia le gambe, mi rende goffa. Fatico a misurarmi con ciò che mi sta troppo a cuore. Divento ansiosa, comincio a grattarmi, come se il sangue all'improvviso corresse troppo veloce sotto la pelle e bruciasse.

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Accendiamo il televisore. Aspettiamo la notte, i servizi più lunghi. Quando i bambini dormono fanno vedere i cadaveri, lividi, inutili, uomini che premono grilletti, che armano obici, che distruggono il lavoro di altri uomini. Che brivido può dare afflosciare in un attimo cose edificate nei secoli, disperdere le tracce della buona volontà umana? Così è la guerra. Ridurre tutto allo stesso niente, un cesso pubblico e un convento nello stesso ammasso di calcinacci, un uomo morto accanto a un gatto morto.
Ogni tanto lo speaker tace. Il cameraman filma. Allora sentiamo la voce della guerra. È un rumore riconoscibile come l'acciottolio dei piatti nell'acquaio. È un silenzio rotto qua e là, tessuto sforbiciato da un sarto nervoso. I passi di uno che scappa, sassi sordi che affondano nel fango. Una raffica, nemmeno così terribile, come una collana che si rompe. Poi il botto duro di un obice. La telecamera che trema. L'obiettivo imbrattato da uno schizzo. Parlottio, come di ragazzi fuori da una scuola. Una testa si affaccia da una macchina carbonizzata, piccola e vispa come quella di un pulcino che ha appena rotto il guscio.

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Venivano trascinati via solo di notte, e di notte venivano sepolti nel vecchio cimitero musulmano. Funerali silenziosi, gente lieve come farfalle notturne. Si sfidava la morte per seppellire la morte.

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Quanta vita c'è in quella guerra?
Quanta morte c'è in questa pace?

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I rullini cadono sul pavimento, nessuno li raccoglie. Ci sono fotografi appostati ovunque, accanto agli attraversamenti più pericolosi, aspettano il morto che cammina, la donna che corre per raggiungere la sua famiglia e che viene colpita. Sono gli sniper della pellicola. Aspettano la fotografia che gli farà vincere il premio.
Dalle colline rotolano a valle storielle agghiaccianti. Nei fine settimana, ai cetnici si uniscono strani volontari. Gente che arriva dall'estero, per divertirsi. Tiratori scelti stufi delle simulazioni, delle sagome di cartone.
Sarajevo è un grande poligono all'aperto. Una riserva di caccia.

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Il retrobottega della guerra, corpi ammucchiati come giocattoli rotti. Il bambino ha un golf a strisce. Gli guardo una mano, leggermente schiusa, abbandonata come nel sonno. L'innocenza reclinata umilmente alla morte. Gli guardo le unghie, dove mi sembra si sia fermata l'anima. Dovrei andarmene perché sento che non mi salverò più da questa visione, che questo bambino entrerà in me e uscirà solo quando anch'io morirò. Sarà l'ultima cosa che vedrò, e la prima che vorrò raggiungere, dopo, quando cercherò le unghie di questo bambino nel volo azzurro delle anime. Non mi chiedo dov'è sua madre, perché non è qui a piangere, forse è morta anche lei. Perché adesso sono io la madre del bambino, gli tocco la mano. So che non dovrei farlo. È che mi sembra di poterlo fare. Nessuno è qui a piangere sulla salma del bambino, a reclamarla. È appena morto, sembra ancora vivo. Sembra che possa fare un guizzo, piantarmi gli occhi addosso e andarsene in fretta come un topo, spaventato di trovarsi qui.
Ora avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace. Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo. Dovrebbero restare chiusi in quella stanza, senza potersi muovere. Restare. Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro. Distribuire panini, sigarette, acqua minerale e lasciarlo lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa. Per giorni. Per tutti i giorni che ci vogliono. Questo esattamente farei.

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Cosa c'è dopo un bambino morto?
Nulla, credo, solo la replica sorda di noi stessi.

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C'è altra gente, seduta sui propri pacchi, donne che stringono bambini. Se ce la faranno ad attraversare le garitte militari dei check-point andranno a ingrossare il gregge già numeroso dei profughi, delle persone in transito, con il foglio del permesso di soggiorno temporaneo nel passaporto blu con i gigli dorati della neonata e già defunta Bosnia. Raggiungeranno i centri d'accoglienza, faranno lavori umili, saranno guardati con sospetto dai cittadini delle nazioni dove potranno vivere, ma mai più essere se stessi. È questa la nuova vita.

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Le donne sanno nascondersi, seppellirsi, come la terra di notte, però al momento di partorire vengono fuori come denti nel buio, è lì che viene fuori l'anima, il coraggio, mentre batte il chiodo. Mentre il destino ti inchioda il ferro di cavallo sui reni e tiri fuori l'osso della vita, un nuovo scheletro che passa attraverso il tuo, come fiume nel fiume.

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Il neonato apre questa bocca di gengiva nuda come quella di un vecchio, di un uccello.
È stato buono fino al decollo, finché è rimasto in basso nel grembo della guerra, immobile come se non fosse mai nato... come se sentisse che anche solo un vagito avrebbe potuto costargli la vita. E ora finalmente può nascere, a novemila metri, nel cielo, dove i missili non possono raggiungerci.

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Tieni un capo del filo,
con l'altro capo in mano
io correrò nel mondo.
E se dovessi perdermi
tu, mammina mia, tira.

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La schiena è la parte che non puoi vederti, quella che lasci agli altri. Sulla schiena pesano i pensieri, le spalle che hai voltato quando hai deciso di andare.

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"Secondo te cos'è una poesia?"
Pietro ride, fa boh, si volta verso di me, dice: "Ma che, stiamo a scuola?!".
Gojko insiste.
"Cosa racconta una poesia come si deve?"
Pietro ci prova, farfuglia.
"Le cose che ti fanno male... però se le senti ti fanno anche bene... ti lasciano con la fame..."
Gojko urla di gioia: "Bravo!".
Gli chiede a bruciapelo: "Fame di cosa?".
Lo guarda, aspetta una risposta, e forse sono gli occhi che faceva quando si preparava a uccidere qualcuno e caricava il grilletto, restava qualche istante in silenzio...
"Boh... di un panino, di una ragazza."
Pietro ride scontroso, ha fretta di allontanare quella conversazione che s'è fatta seria come il volto di Gojko.
"Togli il panino, lascia la ragazza."
Pietro annuisce, e sono sicura che sta arrossendo. Gojko aspetta ancora un po', poi lascia il grilletto.
"Fame d'amore" dice, e adesso è lui che barcolla.
Pietro annuisce. Sapeva la risposta, però si è vergognato perché ci sono io.
"Un buon poeta lascia affamati d'amore."

...

Questi alberi sono così alti e soli, sono quinte che chiudono il cielo in questa strada troppo stretta per due corsie, dove ci si sfiora ma alla fine si sopravvive.
Un cane, un filare di panni stesi, un campo d'insalate, una moschea di campagna. Passaggi di vita ordinaria.
Qui la guerra è passata con le sue aquile e le sue tigri, con i vecchi ultras della Stella Rossa di Belgrado incappucciati come boia.
Passavano e bruciavano i villaggi, uccidevano gli uomini, violentavano le donne. Non restavano che magre file di superstiti in fuga su strade che conducevano a un altro villaggio che aveva fatto la stessa fine. La morte avanza così, come il vento dal mare. Ti chiedi come fanno a coltivare questa terra, a metterci questi filari di pomodori, queste verze. E se di notte le upupe, uscendo dai boschi, riportano indietro il grido delle anime. Morti caricati su camion svuotati come immondizia.

...

Quanto tempo ci vuole a pulire una terra dove le radiazioni del male sono entrate così profondamente?

...

Il male si mette in fila, in branco, perché è vile e non può restare solo. Ha bisogno di essere guardato.

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